Lo studioso: «Meteo, eventi estremi frequenti e difficili da prevedere»
Scritto da Red.azione il 29 Luglio 2021
Il proliferare delle zanzare tigre nel fondovalle dell’Adige è stato solo l’inizio. Poi c’è stata la tempesta Vaja, che ha fatto aprire gli occhi anche a chi negava a oltranza. E poi quest’estate: le terribili esondazioni prima in Germania e poi in Austria, a seguire il nubifragio di Siusi, e le grandinate super in Pianura padana. E il meteo dell’ultima settimana? Temporali a raffica, potenti, temperature ping pong, estrema variabilità. Tanto che lo stesso assessore provinciale alla Protezione civile ha tenuto a rimarcare: dobbiamo aspettarci eventi estremi non prevedibili neanche dagli esperti del meteo.
Per tentar di decifrare la realtà contingente si può provare a parlarne con il professor Dino Zardi, docente di fisica dell’atmosfera all’università di Trento e direttore vicario del Centro Agricoltura Alimenti Ambiente. C’è da chiedersi, innanzitutto, se siano le impressioni dell’uomo comune, oppure se si sia davvero scavallato, entrando in una nuova era climatica. «In effetti – commenta il professor Zardi – i cambiamenti climatici hanno una faccia molto evidente. Innanzitutto c’è l’aumento delle temperature; ci arriviamo tutti, non abbiamo dubbi al riguardo».
Ma l’aumento della temperatura media è solo una delle varianti che entrano in gioco. Ci sono poi altri fattori. «Come conseguenza c’è questo: nell’atmosfera è aumentato il contenuto di vapore acqueo, perché l’aria calda ha maggiori capacità di asciugare i terreni, però c’è un impoverimento idrico non solo del suolo ma anche di foglie, alberi. Il rischio di perdere acque per evaporazione aumenta. Questo ha ovviamente delle ripercussioni in primo luogo sull’agricoltura: c’è un rischio di siccità maggiore». Inoltre, «siccome l’aria più calda contiene una maggiore quantità di vapore, in caso di condensa, quando si formano nubi si tratta di nubi violente, convettive. Si sviluppano temporali: quando le gocce superano una certa dimensione si verificano precipitazioni liquide di forte intensità oppure anche forti precipitazioni solide, grandinate». L’aria umida, prosegue il professore, «tendenzialmente è più leggera e favorisce la convezione». Succede di norma ai tropici, «dove ogni giorni si verificano dei rovesci». È proprio qui uno dei punti chiave della questione.
Cambia il paradigma anche per i nostri previsori meteo. «Ai Tropici ogni giorno si verificano rovesci, che non sono quelli usuali da noi; non arrivano fronti di maltempo come da noi, per esempio provenienti dall’Inghilterra». Sono fenomeni puntuali. Nascono lì. E ora, nascono pure qui. «La convezione locale produce termiche, il fenomeno evolve in verticale, quando le goccioline di condensa diventano più grosse e pesanti inizia a piovere». Non per nulla si parla di tropicalizzazione del clima. Non più depressioni, bassa pressione in arrivo da lontano, con fronti estesi, bensì fenomeni locali. «Se su un versante montuoso l’aria si surriscalda particolarmente, dando innesco alle correnti, tutto si scarica lì vicino». Sta proprio qui il problema. «Si tratta di fenomeni particolarmente difficili da prevedere. Non sono precipitazioni organizzate, di grandi dimensioni, che posso seguire da lontano». I radar meteo, in questi casi, servono a poco. «Questi fenomeni nascono localmente. Quando mi accorgo di cosa sta per succedere, il tutto sta già partendo. La convezione è un fenomeno esplosivo, che nasce e si esaurisce in poche ore». A regnare sovrano, dunque, è un regime di instabilità, come in questi giorni di fine luglio. «Da qui al fine settimana saremo esposti a fenomeni di instabilità, ma non è possibile dire quando il tal fenomeno si verificherà e nemmeno dove. Può partire qua o là, si tratta di un elemento stocastico, non prevedibile». Se non è prevedibile la localizzazione e la tempistica dei fenomeni, è invece più semplice da prevedere, quanto meno a livello teorico generale, l’aumento di intensità dei fenomeni. «Se l’atmosfera è più calda e incamera una maggiore quantità di vapore acqueo, in sostanza contiene più energia che, quando si scarica, ha un impatto più violento».
Il professor Zardi ama servirsi di un esempio al di fuori del suo campo di studi. «È come quando viaggiamo in auto a un velocità molto elevata. Se tutto fila liscio, non c’è nessun problema. Ma se capita una collisione è chiaro che l’esito e i conseguenti danni sono molto più pesanti. Sappiamo che se per qualsiasi motivo il traffico veicolare deve rallentare, la frequenza di incidenti con grossi danni diminuisce alquanto». Idem accade con il cambiamento climatico in atto. «Se c’è più energia in atmosfera, aumenta il potenziale di impatti significativi». Il cambiamento climatico, oltre agli eventi estremi di cui sopra, ha poi altri risvolti negativi, per esempio sui ghiacciai. «Fino a pochi decenni fa erano una garanzia per il futuro, costituivano una riserva di lungo termine. In certi anni crescevano, in altri diminuivano, ma in media mantenevano una massa significativa».
Da alcuni decenni, però, si registra una continua inesorabile diminuzione. L’acqua stivata sotto forma solida nei ghiacciai costituiva una riserva idrica utile per l’ambiente naturale, l’agricoltura, l’idroelettrico. Ora invece tirano decisamente brutte arie. Come in agricoltura. Apparentemente l’innalzamento delle temperature medie permette di coltivare a quote più elevate o di coltivare da noi specie – per esempio di vite – un tempo destinate a quote più basse. «Apparentemente – ad esempio per la viticoltura – è un vantaggio, non immune però da rischi. Le coltivazioni infatti devono fare i conti non solo con le temperature medie, ma anche con quelle estreme, minime e massime. Posso coltivare in un posto in quota una palma, per qualche anno può andarmi bene, può svilupparsi, specie se si susseguono inverni non troppo rigidi. Però basta che una sola volta arrivi una gelata, fatto alle nostre latitudini niente affatto improbabile, che la palma si secca e muore. Le temperature medie più elevate non sono sufficienti, contano anche le minime e le massime. In una sola notte può andare tutto perduto». E invece, sul clima, ormai è tutto perduto? «Se vogliamo contenere entro un grado e mezzo le temperature medie rispetto alle condizioni preindustriali, a livello globale dovremmo raggiungere un bilancio con zero emissioni nette di CO2 nel range tra il 2040 e il 2055». A livello internazionale al riguardo sono stati elaborati dei grafici eloquenti. «Azzerando le emissioni nette si stabilizzano le concentrazioni, che poi pian piano cominciano a diminuire. Il sistema tende ad assimilare CO2 grazie alle piante e agli oceani». Ma se non ci si riuscisse, cosa accadrebbe? «Facciamo fatica a dire cosa accadrà in futuro. Si tratta di territori inesplorati. Non si sono mai investigati simili fenomeni di innalzamento medio delle temperature in tempi così brevi. È un capitolo inedito nella storia della Terra». Le soluzioni per uscirne? «Riduzione delle emissioni di CO2, facendo largo impiego di energie rinnovabili. Nella nostra regione si sfrutta l’idroelettrico? Forse si potrebbe incentivare ancora di più. E poi siamo in un contesto alpino sì, ma con molte giornate soleggiate. Si dovrebbe potenziare il ricorso all’energia solare, banalmente anche solo sulle coperture degli edifici. E poi c’è tutto il capitolo mobilità: affidarsi ai motori elettrici, compresi i sistemi di trasporto pubblico. E non dovremmo più utilizzare combustibili fossili, né in inverno per riscaldare né, tanto meno, in estate per raffrescare».